Con Giovanni Dinelli, docente di Agraria all’Università di Bologna
Con l’avvento della chimica di sintesi in agricoltura, grazie alla cosiddetta “Rivoluzione verde”, negli ultimi 50 anni la nostra capacità di produrre derrate alimentari è cresciuta a dismisura. Produciamo cibo in grandissime quantità, in sempre meno spazio e utilizzando una sempre crescente quantità di energia in entrata nel sistema. La “chimica” si è sostituita a tutti quegli elementi ecologici, che un tempo fornivano i servizi, appunto “ecologici”, indispensabili per la fertilizzazione e la protezione delle colture. La nuova agricoltura industriale, che si è affermata dopo la “rivoluzione verde”, ha inciso profondamente anche sul paesaggio rurale, modificandolo profondamente. I campi coltivati sono diventati sempre più grandi, e tutte le “infrastrutture ecologiche” ad essi correlate sono rapidamente scomparse. Indicativo un rapporto della FAO dei primi anni ottanta del passato secolo che definiva la pianura padana “un deserto coltivato a mais”. Le domande, a cui cercare di dare una risposta, sono: “potrà ancora mutare il paesaggio rurale?”, e “tale mutamento potrà essere correlato all’affermarsi di un nuovo modello agricolo, forse meno produttivo ma più attento alla sua impronto sugli ecosistemi terresti e più idoneo a contrastare gli effetti del cambiamento climatico?”, e infine, “vinceremo la sfida di fornire alimenti per tutti gli uomini senza per questo devastare la nostra “casa comune”?”.